lunedì 25 gennaio 2010

La Banda del Brasiliano (A Summer of Rage), di John Snellinberg (2010)

"Il problema sono quelli come te"

Tra le fabbriche della periferia pratese è rinvenuto il corpo senza vita di un bambino di dieci anni, precedentemente scomparso. Il giorno successivo, in un ufficio di Vaiano, un impiegato di cinquanta anni, Massimo Gori, viene rapito da un gruppo di ragazzi.
L'ispettore Brozzi, vicino alla pensione, è incaricato di seguire il caso, assieme al giovane e inesperto Vannini. I sospetti cadono sulla “banda del Brasiliano”, che ha precedentemente tentato - goffamente - di rapire altri soggetti.
I rapitori sono quattro ragazzi sulla trentina: il Biondo, il Mutolo, il Randagio e il Brasiliano. Il movente del rapimento è in realtà decisamente insolito.
Soltanto le indagini dell’ispettore Brozzi, perseguitato dai ricordi del passato, e di Vannini potranno far luce sul caso…




A Prato succedono cose strane con la crisi, una di queste è certamente la nascita, anzi la maturazione, di un collettivo di nome John Snellinberg. Gruppo di ragazzi che si occupa di produzione di pellicole a basso, anzi a costo zero o quasi. Cinema Borsi, in centro a Prato, la sera della prima, e il clima che si respira è precisamente quello delle grandi occasioni: sala gremita, anche per la seconda replica, e una grande attesa sui volti dei paganti. Poi il film. Ci sono storie che ti aspetti da amanti, anzi feticisti del poliziottesco, cliché ben preparati e confezionati che esaltano i fan (e ce ne sono parecchi) e annoiano chi non ne condivide i gusti, storie che sanno di già fatto e già visto, con inevitabile effetto "usa e getta". Questo ci si aspetta in fondo, e questa previsione si rivela, in modo felicemente sorprendente, essere fallace. I problemi che il film ci racconta sono gli stessi in fondo di un Virzì o di un Soldini, ma è il tono che cambia. Tono che non è quello di cinquantenni che piangono di loro stessi, ma quello di trentenni che parlano di cinquantenni e anche di loro stessi. L' artigianalità e la spontaneità non fanno altro che conferire al tutto freschezza e passione, e l' ora e mezzo di film passa che una meraviglia. Intrigante il personaggio Brozzi, interpretato da Carlo Monni, ispettore sessantenne "che si tira fuori dai giochi". Michele Baldini



Cinephagus on the road again destinazione Prato, cinema Borsi. Anteprima nazionale della produzione cinematografica indipendente "La Banda del Brasiliano". Firmato John Snellinberg. Tutto esaurito per le due visioni programmate in serata; già fuori dal cinema fustigati da un vento polare si respira aria di grande evento. John Snellinberg da par suo non si è fatto intimorire dalla concomitanza con la prima nazionale di "Avatar" e sembra aver vinto la sua sfida. Il film mi spiazza: credevo dalle informazioni a me pervenute che si trattasse di un' operazione vintage, una sorta di rievocazione storica dei poliziotteschi '70 fatta da un gruppo di affezionati del genere ma sbagliavo. Questo è un semplice punto di inizio, lo Snellinberg team si è spinto molto oltre. Mettendo in campo delle ottime professionalità ha destrutturato il genere mantenendo le "regole" principali (all' interno del ristrettissimo budget a disposizione), ma proprio come i maestri dei settanta lo ha riadattato alle misure della contemporaneità evidenziandone le problematica più care al pubblico odierno. Naturalmente con occhio indipendente. Quindi dove nel passato c' era la preoccupazione per una criminalità in crescente escalation ora c' è la paura della disoccupazione e del precariato (non a caso la vicenda e gli autori sono di Prato, una delle zone più colpite dalla crisi), dove c' era la contestazione giovanile c' è lo scontro tra i trentenni ed i cinquantenni ex contestatori che "hanno ciucciato l' uovo e c' hanno lasciato i' guscio", dove c' era la primitiva brutalità della violenza delle bande c' è un' analisi più profonda della vita unita ad una voglia di rivoluzione che non trova modo di sfociare in azioni concrete. Snellinberg smussa(no) gli angoli con escursioni nella commedia pura grazie ad un cast amatoriale straordinario che naviga a 360° fra momenti di suspense e tirate in vernacolo spassosissime e la star Carlo Monni, che una volta abbracciato il progetto interpretando l' ispettore Brozzi, sembra essere l' ago della bilancia nelle controversie generazionali in ballo. La migliore musica in giro commento tutto il cortometraggio, con una lista lunghissima di talenti che rimando all' uscita del disco per "Escalation" dell' O.S.T. L'ALTRA ITALIA. Enrico Prosperi

PROSSIME REPLICHE
giovedì 28 gennaio al Cinema Borsi, Prato. ore 21 e ore 22.40
venerdì 29 gennaio al Cinema Modena, Vaiano (po), ore 21.30
sabato 30 gennaio al Cinema Modena, Vaiano (po), ore 21.30
giovedì 4 febbraio al Cinema Spazio Uno, Firenze, ore 20.40 e 22.30
sabato 6 febbraio alla Faf (Osmannoro, Sesto Fiorentino), ore 21.30 con proiezione cortometraggio "Gioventù, Droga e Violenza, la Polizia Interviene" e festa a seguire.
Per saperne di più www.labandadelbrasiliano.com

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lunedì 18 gennaio 2010

Wampyr (Martin), di George A. Romero (1978)

"Non accade mai come nei film,
ho visto film dove succhiano sangue tutte le notti,
questo è pazzesco!"
"Vuoi dire che i film non sono reali?
Ma tu così ci distruggi un mito!"


Martin è un vampiro post adolescente che viene ospitato dal suo devotissimo cugino, Dada Kuda, molto più anziano di lui per scacciare la maledizione che lo condanna. Il nemico principale del ragazzo è però l' incomprensione, dalla quale trova scampo solo quando parla nottetempo con lo speaker di una radio e intraprendendo una relazione con una casalinga sola e sfruttata della cittadina, Braddock, Pennsylvania. Il finale sarà tragico.

Incredile tappa "non-zombie" del cinema di Romero, qui nella versione italiana nella quale cambia titolo (da "Martin" a un più domestico "Wampyr") e musica (da Rubinstein ai Goblin) ed è montata da Dario Argento. Un film splendido, in cui convivono le emozioni più forti dell' uomo, ovvero l' amore e il terrore, costruito su inquadrature precise e statiche con una narrazione impalata sul piede di partenza. La suspense alimentata di continuo che implode, nel nulla, spiazzando chi guarda. Citazioni cinefile abbandondanti e nelle righe, l' impegno politico, consueto, del regista, contrario al bigottismo cattolico e all' ipocrisia reazionaria della provincia convive con una lucida e spietata analisi del mondo interiore postadolescenziale, passando anche per il "mercato delle emozioni" fatto dai media e una sana dose di morbosità sessuale, mai più comparsa, almeno in modo così evidente, nei successivi lavori di Romero. Un film con mille domande e nessuna risposta. Perfetto John Amplas (vampiro o umano?) nella parte del protagonista. Doppiamente capolavoro, perché realizzato in casa, con familiari e amici a costi minimi. Michele Baldini.

Il vampiro come malato, o meglio alienato essere avulso dalla realtà. Con questi presupposti Romero gira il suo film piu' "europeo", piu' ermetico, decisamente disturbato. Il papà dei morti viventi si muove su tre piani di realtà diversi: il presente in cui il Martin del titolo originale vive e opera come un necrofilo con la passione per il sangue ed un' inusuale compassione per il dolore delle vittime, il passato/allucinazione fissato in splendidi inserti in B/N d'autore, le telefonate alla radio che svelano l'intimità perversa e labile del protagonista. Non sapremo mai se Martin sia un vampiro o no, ma non importa; importa che non è un superessere, ma un emarginato, un paranoico, rifiutato persino dai parenti, che non fa paura, ma vive in essa diventando predatore sfuggente e subdolo che opera con metodi vigliacchi, guidato da visioni o forse suggestioni cinematografiche. Su questo impianto in prima persona si snodano diverse sottotracce; critica all'estremismo religioso (lo zio Cuda fervente cattolico si rivela piu' sanguinario di lui), satira sul genere horror stesso (Martin travestito da conte Dracula irride lo zio in un siparietto da film muto e Romero stesso interpreta un prete sui generis che sbeffeggia "L'Esorcista"), disgregazione della società (gli altri comunque sono arroganti o preda delle loro ossessioni). In summa il prodotto risulta di ottimo livello grazie ad una produzione a gestione familiare che permette al regista un controllo artistico totale (regia, montaggio, fotografia), ritmo angoscioso (si rimane sempre sulla corda attendendo un "esplosione" che non arriva mai), tagli d'inquadratura che alternano momenti simmetrici a sguardi sbiechi comunque sempre claustrofobici e desolanti anche an plein air e l'erotismo distorto di fondo vero leit-motiv del film. Fortissime e disarmanti le scene di apertura in medias res ferroviaria, del pluriomicidio in villa borghese centrale ed il violento e fulminante finale. John "Martin" Amplas è semplicemente inquietante. Evitare versione italiana. PERLA NERA.




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lunedì 11 gennaio 2010

Le Fatiche di Ercole (1958), di Pietro Francisci

"Ora ho capito, tu sei Ercole di Tebe! A Iolco si aspettano grandi cose da te!"

Ercole si dirige a Iolco, invitato dal re Pelia per insegnare l' arte delle armi a suo figlio Ifito. Il re è in realtà un usurpatore ma Ercole saprà alla fine sciogliere l' inganno. Nel frattempo si cimenterà in alcune delle sue fatiche ed accompagnerà il legittimo erede al trono Giasone alla ricerca del vello d' oro...

Il mito si rinnova e si adatta sulla misura di chi lo interpreta. Ercole è, per sempre, il paladino del vero e del giusto, e difende i giusti con la forza e l' ingegno. Cosa può importare se la filologia è ampiamente messa da parte (si mescolano addirittura due saghe, quella delle fatiche di Ercole e quella degli Argonauti), se i nomi dei personaggi sono inventati o confusi, e se tutti sono buoni o cattivi al 100%, quando Bava fotografa alla sua maniera (ovvero magnificamente) le magniloquenti scenografie riciclate a costo zero dai set dei kolossal americani, quando succedono talmente tante cose in un' ora e mezza che potrebbero bastare per un telefilm in una produzione contemporanea (e del resto Ercole è diventato poi anche un telefilm), quando si respira il vento (in poppa) di Cinecittà degli anni 50, che ci spinge verso le coste della Colchide girate a Terracina, attraverso le consuete cascate di Monte Gelato? Michele Baldini

Nel 1958 Pietro Francisci fissa le coordinate del peplum, "genere" destinato a spopolare e deragliare nel giro di 7/8 anni; lungometraggi a basso budget che riciclano sia set e costumi di film storici che miti greci studiati a scuola. Opera votata al divertimento puro, che, aggiungerei, giustamente si disinteressa dell'inerenza alle "versioni" greche e latine, ma ne sfrutta l'afflato avventuroso e il coinvolgimento emozionale che hanno sempre avuto da millenni sul pubblico. Steve Reeves, bravo ragazzone americano risulta uno dei migliori Ercole di sempre, unendo all'ovvio sfoggio di forza e muscoli d'acciaio, dei bei movimenti fluidi e dinamici ed un'interpretazione disinvolta e capace a differenza di molti suoi successori discretamente imballati. La regia è scorrevole e valorizza le campagne laziali indorandole di miticità classica, aiutata dal talento visivo di Mario Bava (fotografia) che negli interni si sbizzarrisce estraendo eleganza da qualsiasi immagine e dirigendo effetti speciali sempre credibili; tutto è basato sulle solide colonne doriche costituite dalla scrittura di Ennio De Concini, Carlo Fratini e del regista. Lancio dell'allora starlette Silva Koscina. PICCOLI TITANI. Enrico Prosperi




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lunedì 4 gennaio 2010

Se Sei Vivo Spara (1967) di Giulio Questi

"Non vi basta quello che è stato fatto? Siete marci, più marci di qualsiasi cadavere!"

Salvatosi grazie all' aiuto di due indiani da una resa dei conti dopo una rapina, in cui tutta la sua banda è stata uccisa, lo straniero (senza nome ovviamente) medita vendetta. Raggiunge così il villaggio dove si trovano i suoi nemici, ma qui, al contrario, i nemici sono ben altri. I malviventi vengono presto sgominati dagli abitanti del villaggio stesso, che si appropriano del bottino. Lo straniero deve ora guardarsi dalla riluttanza che questi abitanti, cinici, avidi, ipocriti, razzisti e violenti gli riservano. In un "tutti contro tutti" finale, senza regole e senza "buoni", per accaparrarsi l' oro in palio, l' unico a sopravvivere sarà però lui, anche se senza bottino.

A metà strada fra Leone e Jodorowski, il lavoro di Questi (o per meglio dire Questi-Arcalli, visto che la coppia ha stabilmente lavorato assieme, il primo alla regia e il secondo al montaggio, vero "co-protagonista" delle pellicole) tende a sublimare l' epopea del west in uno scontro di diverse mostruosità, di aberrazioni della società contemporanea e non, come l' avidità (soprattutto), l' omosessualità, l' ipocrisia, il cinismo. Lo stile, non impeccabile, è dunque eccessivo, e risente, forse, del tempo in cui "se sei vivo spara" ha visto la luce, visti alcuni momenti psichedelico-mistici (il rinvenimento de Lo Straniero), e un montaggio moderno e modernista, quasi godardiano, che tuttavia risulta decisamente "spaghetti-vague". La storia, a tratti lacunosa o fallace, l' inverosimilità di alcune scene (l' oro che si fonde con un incendio cola da uno sportello di legno che resta intatto), la discontinuità ritmica della narrazione, sono alla fine compensate dall' iperrealismo ultraviolento che anticipa le pellicole crepuscolari del genere western (da "Il Mucchio Selvaggio" in poi), da un Milian-Ferruccio Amendola che dove lo metti sta e da una "scorrettezza" di fondo, che è ciò di cui è più ricco (e rivelatore) il film. Sperimentale "nel" genere, e, se dio vuole, non ancora "di" genere. Michele Baldini

Come sarebbe stato lo spaghetti western se avesse "vinto" la coppia Questi Arcalli? Meno primi piani, niente dilatazione dei tempi, niente respiro epico. Avremmo avuto: montaggi ardimentosi, ritmo allo spasmo, soluzioni di continuità non troppo rigorose, soggetti piu' inerenti al periodo storico di stesura che a quello di ambientazione, licenze poetiche poco ortodosse, ma di sicuro effetto. C'e tutta la libertà espressiva e non, che si respirava negli anni di lavorazione: voglia di fare "cappelloni" e parlare di capitalismo che avanza, avidità del genere umano, di società che cambia, di diversità da accettare e di diversità che si impongono con la forza. Il risultato è buono, ma non troppo digeribile per gli amanti della vecchia frontiera. Il lavoro di montaggio di Kim Arcalli (quasi da videoclip) non è l'unico tesoro del quale qusto lavoro è stato saccheggiato, anche in tempi recenti. Finale piu' simbolico che credibile. PIONIERI DEL WEST. Enrico Prosperi



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