lunedì 26 ottobre 2009

La 24 Ore di Le Mans (Le Mans), 1971, di Lee H. Katzin

"Quando uno corre... vive. E tutto quello che fa, prima o dopo, è solo un' attesa"

Sullo scorcio di una delle più importanti e famose corse automobilistiche di sempre, la famigerata 24 ore di Le Mans, si consuma la vicenda del pilota Michael Delaney (resosi famoso l' anno prima in uno spettacolare incidente in cui perse la vita un altro pilota, Dion Belgetti) a bordo della Gulf-Porsche 917. Suo avversario in pista Erik Stahler, pilota Ferrari. Sarà scontro all' ultima curva e all' ultimo colpo di scena.

La macchina organizzativa di uno dei massimi eventi sportivi del mondo al suo apice, il 1970, svelata nei suoi intimi retroscena e ripresa con occhio minuzioso. Ogni ripresa in pista è una sorta di poesia visiva di memoria quasi marinettiana che esalta il rombo e la velocità delle monoposto, e Lee Katzin, regista soprattutto televisivo e pubblicitario fa bene il suo mestiere, in questa operazione che sa più di product placement che di storia di fatti e persone. A margine di tutto ciò McQueen e il suo essere a pieno in una parte che lo impegna per ciò che realmente è: un tipo da vita spericolata. Michele Baldini.

Scarso successo di pubblico e di critica per un lavoro "borderline" che si districa tra film, docu-sport e réclame, meritandosi, sinceramente, più successo.
Celebrazione della leggendaria corsa francese all'apice del boom motoristico mondiale (1970), ci cala, dopo un breve prologo, nel cuore della corsa in un fiume di rombi, sorpassi, auto mitiche e forti emozioni da piloti. La cifra registica rivela ottima professionalità dimostrando molto più interesse per la spettacolarità della velocità che per i dialoghi, formula che si sposa perfettamente con le caratteristiche della superstar protagonista, un McQueen che non smentisce la sua vita spericolata proponendo alla produzione, che glielo impedì per ragioni assicurative, di partecipare direttamente alla corsa. Il risultato é un ibrido molto interessante che risulta scorrevole grazie a un uso del montaggio innovativo (per il tempo), riprese con camera-car in competizione, ricostruzioni in pista con le auto originali e spezzoni di reportage della corsa. DA RIVALUTARE. Enrico Prosperi


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lunedì 19 ottobre 2009

Il Clan dei Siciliani (Le Clan des Siciliens), di Henri Verneuil, 1969

"Sa perché ho sparato la prima volta?
Perché mi stavano venendo addosso nonostante le mie pistole"

Don Vittorio Manalese, boss siciliano trapiantato a Parigi, e la sua famiglia, si avvale della collaborazione di Roger Sartet, detenuto evaso per mettere a segno il colpo del secolo, a una mostra itinerante di gioielli. Il primo sogna di tornare nella sua amata terra d' origine, il secondo cerca la fuga e la salvezza in Messico. Il commissario Le Goff proverà a contrastare l' operazione ma saranno altri i motivi del fallimento.

Un tris d' intoccabili, Jean Gabin, Alain Delon e Lino Ventura del cinema francesce. Una produzione importante affidata alle sapienti mani di Verneuil che mette in scena un bel romanzo di Auguste Le Breton, in cui convivono azione incalzante (con assoluta assenza di violenza esplicita) e tutte le raffinatezze registiche caratteristiche del cinema d'oltralpe. Ottime soprattutto alcune scelte d' ambientazioni, come l' officina di flipper del boss Manalese e le numerose riprese aeroportuali. Riuscitissimo lo studio sui personaggi di Gabin (Manalese) e Sartet (Delon), meno il commissario Le Goff, salvato ugualmente dalla solita limpida prestazione di Ventura. Bellissima e (suo malgrado) fatale Irma Demick. Imprescindibile la parte del boss americano Tony Nicosia interpretata da un redivivo Amedeo Nazzari. Michele Baldini
Henri Verneuil ci mostra come si intende il poliziottesco in Francia alla fine dei sessanta: violenza si ma sotterranea, storie di persone maledette, codici d'onore criminale e una certa ammirazione per la "mala". Grandi gli interpreti: Delon strabello e maledetto, Gabin a suo agio in veste sicula, Ventura mascella d'acciaio, Nazzari emigrante affermato.
Si nota la precursione del genere Airport, grazie al budget che si nota essere di tutto rispetto. Da segnalare la colonna sonora del Maestro Morricone. POLAR. Enrico Prosperi


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giovedì 8 ottobre 2009

Fracchia La Belva Umana, di Neri Parenti, 1981

"Com' è umano lei..." Giandomenico Fracchia

Giandomenico Fracchia è uno sfortunatissimo impiegato di un'industria di cioccolato. È preso in giro dai colleghi, odiato dalla donna che ama, bistrattato dal presidente e, per di più, sosia del pericoloso criminale detto Belva Umana. La squisita somiglianza tra i due sarà la fonte di numerose gag e sventure per il povero impiegato e fortune per il pericoloso criminale.

Uno dei classici minestroni (riscaldati) della commedia italiana degli anni 80, uno dei più riusciti, nonostante il repertorio più che riciclato del pur sempre irresistibile fracchia/fantozzi/paolo villaggio, qui accompagnato da sé stesso (ripercorrendo il plurisfruttato tema del doppio), da un lino banfi spettacolare e un esercito di comparse e caratteristi alcuni dei quali impeccabili: Anna Mazzamauro, Francesco Salvi, Sandro Ghiani, Antonio Allocca, Ugo Bologna, Renzo Rinaldi, Renato Cecchetto, Roberto Della Casa, Massimo Boldi, Gigi Reder, Gianni Agus. E un Neri Parenti in una di quelle poche volte in cui oltre a dire "azione" e "stop" si ricorda anche di fare il regista. Il plusvalore arriva da una critica poco velata alle forze dell' ordine, e dalla morale (comune al filone ma mai scontata) che sta dalla parte dei forti (che schiacciano i deboli) e molte gag memorabili. Michele Baldini

Parata di caratteristi per un classico presente nella filmografia essenziale di tutti. Giandomenico Fracchia, alias Paolo Villaggio all'apice della sua parabola surrealista-catastofica è l'alter-ego funzionale per slegarsi dal piu' rigido schema fantozziano e portare la stessa cifra comico satirica in ambito poliziottesco con una punta di critica di costume.
Il susseguirsi di gag leggendarie sorretto da un ritmo insolitamente incalzante per i canoni del regista (Neri Parenti) ci cala in situazioni si iperboliche, ma che non scadono mai nel macchiettismo. Inseguimento pedonale finale notevole. Obbligatorio. Enrico Prosperi



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lunedì 5 ottobre 2009

L' Uomo dalla Cravatta di Cuoio (Coogan' s Bluff), di Don Siegel, 1968

Un Vicesceriffo dell'Arizona è inviato a New York per ottenere l'estradizione di un assassino. Lo preleva, se lo fa portar via dai suoi complici, è esonerato dal servizio, riacchiappa il criminale.

Il duetto Siegel-Eastwood alla prima prova insieme deve registrare alcuni accordi, prima di arrivare agli apici di Dirty Harry e più ancora di Fuga da Alcatraz, ma questo Coogan' s Bluff resta una importante testimonianza (se non altro) storica di un passaggio, quello dagli anni sessanta e l' epopea western al poliziesco dei settanta. Lo fa con molta approssimazione, ma i cliché ci sono già tutti. Michele Baldini

Aspettando Dirty Harry la premiata ditta Siegel-Eastvood, qui all'esordio, produce un western metropolitano con contaminazioni poliziesche. Qualche ingenuità in fase di sceneggiatura o forse facile qualunquismo (vedi stigmatizzazzione della cultura hippie).
Buono l'uso del Panavision, ottimo per l' incipit in spazi aperti, che applicato agli scenari cittadini da un respiro piu' epico alla grande caccia di Coogan. Mettendo a punto il personaggio di Callaghan; Clint (in forma fisica eccellente con ciuffo rockabilly) gigioneggia nel ruolo del cowboy sciupafemmine e insubordinato, che che si perde nel vortice della grande mela. Da non perdere l'inseguimento finale in moto. Propedeutico. Enrico Prosperi


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